
È andato in scena domenica 30 marzo al Piccolo Teatro della Città lo spettacolo teatrale Harem, una tragicommedia tra attesa e inganni, scritto da Alberto Bassetti e prodotto dall’Associazione Città Teatro in collaborazione con VersoArgo.
La regia di Manuel Giliberti dà vita a un’opera che intreccia il passato e il presente, trasformando lo stato d’animo dell’attesa in un momento di riflessione profonda che si avvale dell’ironia per lasciare il segno nello spettatore.
Il cast, composto da Simonetta Cartia, Deborah Lentini, Alessandra Fazzino, Cecilia Mati Guzzardi ed Emanuele Puglia, interpreta con maestria personaggi del periodo federiciano, portandoli però in una dimensione avulsa.
Queste figure femminili più che omaggio a un’epoca storica, incarnano donne senza tempo, alle prese con l’arduo e universale compito di definire la propria identità in un contesto sociale di relazioni complesse.
Donne in attesa di vivere, di un uomo che le riconosca piacevoli, interessanti, per godere della libertà di scegliere, ballare, viaggiare. Donne che si servono dell’arte della seduzione per tentare di accaparrarsi il potere di essere sé stesse.
Considerate strumento a volte di piacere, a volte di perpetuazione della casata, a volte politico per alleanze tra potenti, quando non venivano maltrattate e schiavizzate, le donne a prescindere dalla classe sociale erano comunque, considerate oggetto – dentro e fuori – le corti duecentesche.
L’azione si svolge nella sala di uno dei tanti castelli che Federico II fece costruire nei suoi territori.
La regia ci introduce in un Harem, la scenografia e le luci contribuiscono a creare un’atmosfera sospesa, quasi metafisica, che amplifica il senso di attesa vissuto dai personaggi. Al centro del palco un letto a baldacchino, che ricorda gli arredi del noto brand nordico, senza orpelli né ricami.
Si percepisce che l’essenziale e il funzionale abbiano contaminato ogni cosa, dal letto agli animi: Shakespeare avrebbe insistito che siamo fatti della stessa materia di cui sono fatti i sogni, e qui se si astrae dal sogno non resta neanche un alito di vita.
Le prescelte giocano a turno, abbracciandosi su questo letto. Le quattro donne di età diverse, come fiori in via di marcescenza, attendono tra noia, ansia e rassegnazione la visita dell’imperatore.
L’atteso salvatore è Federico II di Hohenstaufen, Imperatore del Sacro Romano Impero, Re di Sicilia e di Gerusalemme e per il quale, nel corso dei secoli, sono state coniate tantissime definizioni. Lo Stupor Mundi fu un uomo dai mille volti, dai tanti e svariati interessi e dalle non poche ambiguità. Fu un uomo considerato potente, anzi, all’epoca, il laico più potente della terra e il suo rapporto con le donne fu controverso. Tre mogli, almeno due conviventi e un non precisato numero di amanti dalle quali ebbe un altrettanto imprecisato numero di figli, fanno pensare ad un uomo fascinoso, di particolare bellezza.
Sul piano legislativo, invece, Federico II si distinse per un approccio sorprendentemente progressista per l’epoca. Con le Costituzioni di Melfi del 1231, incluse nel “Liber Augustalis,” introdusse norme che tutelavano le donne da violenze e soprusi. Ad esempio, decretò la pena di morte per i rapitori di donne, abrogando la pratica del “matrimonio riparatore,” e abolì il “giudizio del duello” per i casi di violenza carnale. Queste leggi rappresentavano un tentativo di garantire dignità e protezione alle donne, in un contesto storico in cui erano spesso considerate subordinate.
Emanuele Puglia è così attorniato in scena da quattro donne: una siciliana, una germana, una romana e una saracena, quattro donne così diverse eppure così uguali!
Se lo spettatore si aspettava un nugolo di danzatrici velate tra incensi e opulenza è rimasto contrariamente sorpreso.
In Harem a danzare sono i pensieri quasi ossessivi-compulsivi di quattro recluse, ed è chiaro sin da subito che la gabbia dorata sia un privilegio riservato a prescelte.
Dunque, la danza è nelle parole che sortiscono da un costante ruminare cerebrale in un tempo che non ha lancette, fatto di lente speranze di rintocchi di campane immaginarie. Non si smette di pensare, immaginare, fantasticare, sospirare e sbuffare.
Tra un’accesa competizione per esser scelte come “la preferita dell’imperatore” e attimi di sorellanza resta l’attesa, la più ingombrante protagonista senza sostanza.
Tutte in attesa di incontrare l’Amore, ovvero l’uomo per cui erano state rinchiuse, l’uomo da amare… E giacché sia dell’amore che dell’Imperatore non avevano esperienza diretta alcuna, se non quella del ‘sentito dire’, non avrebbero saputo neanche riconoscerlo… Facile ingannarle.
Come può un essere umano, crescere in cattività, senza istruzione alcuna e avere conoscenza di sé, dei sentimenti e del mondo intero?
L’attesa in “Harem si dipana come il lento scorrere dei mesi per una donna gravida: un tempo sospeso, carico di speranze e timori, di immaginazioni e illusioni. Qui racchiude non solo il desiderio di un futuro diverso ma anche il peso di una realtà immobile, fatta di rassegnazione e sogni infranti.
Il brillante monologo del Visitatore inatteso (Emanuele Puglia), ripercorre un passaggio storico e politico, che resta molto attuale. Federico II di Svevia era un promotore del dialogo tra culture diverse, come quella cristiana e musulmana, e cercava soluzioni diplomatiche invece di ricorrere alla guerra, come dimostrato dalla sua Crociata della Pace. Promuoveva valori di tolleranza, dialogo e diplomazia, oggi ancora più necessari, dati i conflitti culturali, religiosi e geopolitici. Tuttavia, i papi che si succedettero lo scomunicarono diverse volte per contrasti che riguardavano anche l’alcova brulicante di donne di tutte le età, da scegliere e cambiare a capriccio.
Le quattro accolgono il visitatore tra diffidenza e sorpresa, curiose di conoscere chi fosse, e quali notizie dell’imperatore portasse loro.
Come un falconiere nutre l’animale affinché vada a caccia di altre prede per il padrone, così lo sconosciuto, dal lungo mantello profondo come la notte, alimenta le fantasie delle quattro rivali.
Parla delle doti dell’Imperatore, dell’incontro con San Francesco, narra di falchi, di crociate, di cortei, di conquiste, di sfarzi… parla di vita, desiderata e non vissuta.
Attraverso i dialoghi e un ritmo narrativo equilibrato, la regia offre al pubblico mezzi sorrisi per l’amara introspezione che accenna all’ironia. Lo spettacolo esplora, con grazia e profondità, il delicato rapporto tra potere e dipendenza, una tematica che risuona sia nell’ambientazione storica che nel mondo moderno.
La brillante interpretazione degli attori, unita alla visione registica di Giliberti, rende questo lavoro un contributo interessante per il teatro contemporaneo.
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